NERO
L'ultima volta che sono rinato
L'ultima volta che sono rinato ero un uomo della terra.
L'ultima volta che sono rinato ero un feto di trent'anni.
E c'era freddo là fuori, fuori dal ventre, dall'utero di scrofa...
Ad ogni turno si rovescia il Mondo.
La prima. La prima volta che sono rinato era come l'artiglio di un cancro.
La feroce freddezza della malattia.
Che si trattava di mangiarsi le viscere della Madre
e di infettarle le intranne con sudore e carburo.
E nero. Una neritudine di nulla nulla.
Una nerezza appena stemperata dal lume.
Quella volta sono rinato spuntando dal catino nero della pece greca.
A volte si rinasceva nella zona delle docce,
dove uomini fatti si sfregavano via la fuliggine dalla schiena,
come vecchi cani mansueti, leccandosi a vicenda con lingue di stracci.
L'ultima volta che sono rinato è stato un parto sferragliante.
Col montacarichi che fa una sosta a duecento, poi a centotrenta...
Che si rinasce con lentezza.
Dopo che la gola del pozzo quattro ti ha ingoiato.
L'ultima volta che sono rinato ero cibo indigesto.
Attaccato dai conati e dai sussulti dei gas venefici della terra ventre.
L'ultima volta che sono rinato
ero cibo da vomitare.
E nero, mio dio, oscuro di una qualità tremenda.
L'ultima volta che sono rinato emergevo da una notte insonne.
Dall'untuosa indifferenza di una donnaccia
in cui ero penetrato con rabbia.
Per respirare tenevo la bocca e il naso fuori dal buio.
Ad ogni turno si rovescia il Mondo.
Qualche volta si esce all'aria,
qualche volta si calpesta la terra dalla superficie
che pare poca cosa, come crosta secca di pane nero, raffermo.
E quasi si torna a desiderare la sostanza morbida della mollica.
L'ultima volta che sono rinato ero un bambino che scava il pane col dito.
Tenendo la fetta sotto al tavolo.
E guardandosi intorno.
L'ultima volta che sono rinato ero il verme bianco e salterino
nella pancia cremosa del formaggio marcio.
Nel buio bianco della crema piccante.
L'ultima volta che sono rinato,
ho sollevato il muso all'aria del mattino come un talpa anziana
era bianco. Nevicava anche sul mare.
Ho chiuso gli occhi per ricordare il nero che avevo appena abbandonato.
L'ultima volta che sono rinato ero un sorcio di fogna,
annaspante contro l'urto dell'acqua che cercava sfogo nelle gallerie,
spantato dal rombo assordante, muggito di mare offeso, irato.
E la corrente come un gorgo dentro alle gallerie
che gridava: Ladri! lasciate in pace questa carne martoriata.
Lasciate in pace queste povere membra distrutte dalla silicosi.
Poi nero, nerissimo di un nero totale.
E il lume che illumina un sorriso.
L'ultima volta che sono rinato quel sorriso mi è restato attaccato addosso
come una cradananca.
Che qua sotto, prima della rinascita, c'è sudore e fuliggine.
L'ultima volta che sono rinato, sono rinato con la camicia.
Nera. Nessuna fortuna.
E l'ho strappata via dalla carne a forza di sapone e strigiola.
E a ogni turno, sempre, ostinatamente, si rovescia il Mondo.
Quello che è sopra, quello che è sotto, quello che è fuori, quello che è dentro.
E ogni volta... si rinasce, spossati dal travaglio cigolante del carrello,
e... nero, nero atro, atroce che ti scava sulla fronte il ghigno del nascituro.
L'ultima volta che sono rinato ho aspettato il sole con un vagito.
Ed era un sole minuscolo... Troppo, troppo piccolo...
L'ultima volta che sono rinato portavo il sole sulla fronte,
Ma era una lotta terribile... Erano colpi bassi...
Nell'abisso.
Dall'abisso.
L'ultima volta che sono rinato, mia moglie disse: non scendere più.
E minacciava pioggia in superficie, e, sotto, le transenne scricchiolavano.
E il mare insisteva nel profondo... Insisteva a dare spallate alla parete di roccia.
Per l'incontro...
L'ultima volta che sono rinato...
Sono tornato dove ognuno vuol tornare:
al calore del buio primigenio dove niente è stato,
ma tutto sta per essere... domani forse... domani...
Poem by Marcello Fois
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